Quel sentimento che, per descriverlo, hanno unito due parole antiche e misteriose: “Nostos” e “Algos”. E che, unite insieme, vogliono dire più o meno “dolore per la lontananza”. O (più struggente ancora) “dolore per un ritorno”. Che è di per sé una cosa tristissima. Perché ognuno di noi, in cuor suo, sa benissimo che non tornerà mai.
Come non torneranno Paolo Rossi, e i Mondiali del 1982. E nemmeno i sorpassi di Villeneuve, le punizioni di Platini, i duelli tra Gimondi e Merckx.
E non torneranno Rivera e Mazzola, né Coppi né Bartali, e quelle loro fughe solitarie da dopoguerra che ad ascoltarle alla radio c’era un sacco di gente. Che ricordano i tanti “quando” dello sport che entrano a far parte della nostra vita e, in qualche modo, la colorano, la rendono speciale e talvolta indimenticabile. Fosse anche per lo spazio di un momento.
I racconti del nuovo volume di Riccardo Lorenzetti, ”Il paese più sportivo del mondo”, fotografa alcuni di questi attimi straordinari; di queste imprese divenute storiche tracce luminose per le vite “normali” di tanti uomini “normali”. E proprio la splendida normalità dei protagonisti è al centro di questi racconti, insieme ai grandi momenti storici a cui si trovano ad assistere, anche solo davanti a una radio, a una televisione, a un maxischermo.
Semplici spettatori che, segretamente, si sentono protagonisti, con orgoglio e incoscienza, con entusiasmo e impegno, con amore e, semplicemente, voglia di vivere. Come quel tale che festeggiava i trent’anni di matrimonio e gli chiesero cosa ricordasse di quel giorno: “Praticamente nulla – disse -, se non che quella domenica la Fiorentina vinse a Napoli. Segnò Antognoni, su punizione”.
I personaggi che si muovono all’interno di questi racconti sarebbero piaciuti a Stefano Benni, e anche a Giovanni Guareschi, l’autore che seppe raccontare tanti anni fa un “Mondo piccolo” popolato da pepponi, doncamilli e da tanta gente semplice e perbene.
Quel mondo fatto da storie minime e da persone normali, dove per passare alla storia bastava un episodio particolare o anche solo una battuta ben riuscita. A volte persino una faccia. Tutta roba che poi veniva tramandata in qualche modo e finiva per arricchire le leggenda di un paese, o di una comunità.
Che si muovano nelle nebbie e nelle umidità della Bassa Padana o in un’immaginaria Toscana di provincia, i personaggi che troverete in questi racconti hanno il medesimo comune denominatore: raccontano storie. Storie che parlano di vita ma dove, all’orizzonte, si staglia lo scenario dei grandi eventi sportivi che a volte sanno caratterizzare meglio di tante altre cose i nostri momenti; dove c’è di mezzo un Mondiale di calcio vissuti davanti ad un maxischermo e i ricordi del Grande Torino. Una strania coppia di attaccanti e la leggenda di una lontana edizione dei Giochi della Gioventù. C’è l’immancabile parroco appassionato di calcio, ma anche Gino Bartali; e Michel Platini, eroe di quella Juventus che frantumò il proprio sogno nella notte dell’Heysel.
Si parla di nostalgia, dunque. Ma parlando di sport, in questi racconti, si parla inevitabilmente di vittorie e di sconfitte, coniugate nei mille modi che si presentano nella vita di tutti i giorni. Se ne parla quel tanto che basta per capire che, alla fine, non si vince mai trionfalmente e non si perde mai rovinosamente. Gli eroi minori e semplici di queste pagine non vincono mai del tutto; e quando vincono, perdono comunque qualcosa. Così come, al contrario, le loro sconfitte regalano talvolta il sapore di una piccola vittoria: magari inutile, come sono quasi tutte le vittorie morali. Che servono per esibire qualcosa a noi stessi, e alla nostra coscienza di uomini.
Come ogni progresso che alla fine comporta sempre una perdita, e viceversa. O come nelle migliori tradizioni del calcio sudamericano, dove si trovano spesso squadre un po’ sfigate, povere di vittorie ma ricche di sentimento, che non vincono quasi mai ma che celebrano ogni sconfitta, ogni “derrota”, come una “gloriosa derrota”.