Accanto alla lista del Tesoro, poi, ci sarà quella di Generali (socia al 4,3%) nella quale sarebbe prevista la conferma del presidente del collegio sindacale, Elena Cenderelli, e di Giorgio Valerio, ex Rcs. Se il numero dei componenti del Cda dovesse venire confermato in 13, nel cda che verrà eletto il prossimo 18 dicembre 10 saranno i membri in quota Tesoro e 3 in quota Generali.
Il primo appuntamento dopo la `conferma´ da parte del Tesoro per Falciai e Morelli è l’audizione, giovedì, in Commissione d’inchiesta sulle banche che si è occupata del Monte ascoltando oggi il responsabile della vigilanza di Banca d’Italia Carmelo Barbagallo.
Questi, seguendo la linea già espressa dall’istituto centrale, in un’audizione fiume di quasi sette ore è tornato a indicare come cause del crac del Monte la politica della Fondazione di voler mantenere, anche dopo l’acquisizione di Antonveneta, il controllo a tutti i costi sulla banca. Una decisione che ha fatto indebitare l’ente facendo ideare alla banca, con un «circolo perverso», le operazioni sui derivati (Fresh, Alexandria e Santorini) per nascondere la mancanza di capitale e continuare ad assicurare alla stessa fondazione i dividendi. Eppure l’istituto padovano era a portata di mano del Monte, che aveva un utile di 1 miliardo l’anno e che aveva assicurato il rafforzamento di capitale, difficile ma non impossibile da raggiungere. Poi come ulteriore cause dei guai della banca sono venuti i trucchi e le falsità dei vertici per nascondere gli ammanchi di capitale, e la `tempesta perfetta´ della crisi che ha fatto schizzare gli Npl con la conseguente perdita di reputazione.
Per questo alla domanda del presidente del Pd Matteo Orfini che gli chiede se fosse `pentito´ dell’autorizzazione all’acquisto di Antonveneta `col senno di poi´, lettera firmata dall’allora presidente Mario Draghi, Barbagallo non giudica i suoi colleghi dell’epoca. Con i dati e il contesto di allora «si doveva autorizzare» dice e ricorda come il clima generale fosse di predominio del mercato con l’eliminazione, un anno prima, dell’autorizzazione preventiva della vigilanza alle acquisizioni. Insomma Mps, terzo polo nazionale, poteva anche farcela così come ce la fecero Unicredit-Banca Roma e Intesa-Sanpaolo Imi dove, non a caso, le fondazioni hanno dovuto cedere buona parte del controllo. Certo Banca d’Italia non mollò la presa sul Monte. Furono le diverse ispezioni negli anni fra il 2008 e il 2012 a far emergere irregolarità che però, dice, «erano solo indizi». La prova arrivò, come è noto, solo con la scoperta del mandate agreement nella cassaforte dell’ex d.g Vigni da parte dei nuovi vertici imposti, pur senza averne i poteri formali, da Banca d’Italia. Poi è storia più recente fino all’arrivo appunto, anzi al ritorno, di Morelli nel 2016 e all’uscita di Viola per tentare il piano di maxi cessione di sofferenze e l’aumento poi fallito per mancanza di soci forti.
Morelli, hanno ricordato alcuni parlamentari in aula criticando la nomina, era stato sanzionato da Banca d’Italia per 200mila euro per ostacolo alla vigilanza nel periodo in cui era al Monte dal 2006 al 2010 come vice dg ma il suo nome, ha spiegato la Banca d’Italia, rispettava i parametri della legge e anche la Bce non ha avuto nulla da dire. Si vedrà ora come il manager affronterà la Commissione.